Riporto integralmente l'intervento di Mina Welby, moglie di Piergiorgio, durante un convegno svolto a Milano in data 27.06.2013.
Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, personalmente posso solo divulgare questo immenso gesto d'amore che una donna ha fatto per il suo uomo, per la persona a lei più cara al mondo.
Ricordatevi che il tempo distruggerà ogni cosa, tranne i gesti come questo. Firmate per una legge giusta, firmate per fare sì che il testamento biologico diventi legge anche in Italia.
Buona lettura.
IL DOVERE DI MORIRE
'Chi non ha mai percorso dei sentieri di montagna? Sono
diligentemente marcati con delle indicazioni che aiutano il viandante ad
arrivare alla meta prefissata.
Io per natura ero un po’ discola nel rispettare le
segnaletiche. Curiosa da sempre, seguivo suoni di ruscelli e voci di animaletti
che volevo sorprendere. Non m’importava arrivare più tardi degli altri in cima
alla collina.
Anche sulla strada della mia vita ho fatto come
Cappuccetto Rosso. Ho fatto di più, ho perduto il cuore per una persona che
diventò ragione di vita per me. Dall’esempio di mia madre, che allora non
viveva più, ho tratto il coraggio di farlo. Innamorarsi di una persona con
abilità limitate suscita qualche perplessità e preoccupazione in chi ti
conosce.
Hai riflettuto bene?
Fu la domanda con uno sguardo preoccupato.
Mi vedevano felice e questo bastava a tutti, almeno
credo.
Inizialmente sembrava complicarsi il rapporto tra me
e Piero. Non voleva un legame di responsabilità, sancito pubblicamente, il
matrimonio. Il suo amore arrivò al punto di non volermi legare a sé. Lui era
già allora orientato verso un ‘porto non lieto ma sicuro’.
Troppe erano le avvisaglie di una patologia, la
distrofia, che aumentava varie disabilità fisiche nel suo corpo. Io non lo
amavo per compassione ma volevo che trovasse ancora gusto di vivere nonostante
tutto. Ancora non mi conosceva. Lui cacciatore, amante della natura non doveva
marcire in un letto. Come superare gli ultimi gradini della scala per potere
uscire insieme a lui? E come fargli venire la voglia di uscire? Sorpresa! Uno
scivolo rimovibile e una leggerissima canna da pesca. Alla nostra prima gita
insieme al suo papà fu molto scettico, ma alla fine contento, e una uscita
tirava l’altra, come le ciliegie.
Mi facevano molta pena le larvette di mosca che
mettevo all’amo, ma ben presto diventò una necessaria abitudine. Le ricettine
di trote ai frutti secchi o alle erbette furono graditissime. Avevo vinto!
Aveva vinto la voglia di vivere! E io avevo imparato tutto sulla pesca. Anche
il suo amore per la fotografia e la pittura ci fecero trovare nuove strade per
potere ancora lavorarci.
Le giornate diventarono piene di soddisfazioni sempre
nuove.
Assistere nello studio ragazzi svogliati e studenti
volenterosi, godere dei loro successi agli esami, allestire una mostra
fotografica, poter partecipare ad una esposizione di quadri e riuscire a
venderne qualcuno erano piccole soddisfazioni, silenziosamente condivise. Lo
studio di filosofia alternato a quelli di programmi per computer e tutto il
resto allontanava sempre di più la spada di Damocle della distrofia
apparentemente per me. Oggi so che lui viveva per me. Non aveva mai perso la
severità del suo futuro. Sapeva nascondermelo.
Con molta dolcezza mi preparò e mi chiese di non
portarlo in pronto soccorso se fosse sopravvenuta una crisi respiratoria. Ero
d’accordo. Ci parve tanto semplice morire.
Ma la realtà fu ben diversa di quella che
immaginavamo. Piero mi chiese aiuto.
Chiamai il soccorso.
Era difficile, difficilissimo capire, come agire in
modo giusto. Tutto da imparare. In rianimazione: non mi poteva parlare, aveva
un tubo in bocca attraverso il quale una macchina gli soffiava l’aria nei
polmoni. Non mi doveva vedere triste.
Potevo piangere fuori sul corridoio, dopo la visita.
Non doveva vedermi con gli occhi rossi. Poi venne la scelta possibile: la
tracheotomia. Dopo tre giorni di discussione tra noi due, come meglio possibile
nelle sue condizioni, e i medici. Poi con disappunto mi fece firmare.
Lo vedevo e lo percepivo indifeso, mi sentivo
impotente e in colpa nei suoi confronti.
La sua vita diventò una condanna.
Si fece portare Lucrezio ‘De rerum natura’. Se lo
fece leggere da un’infermiera quando era libera. Sicuramente non apprezzava la
catechesi del cappellano sul valore del dolore e la salvezza dell’accettazione.
Poi tornò a casa.
Era un figlio della terra, dove tutto muta, nulla si
distrugge, ma serve per fare nascere altro.
I suoi occhi mi parlavano di ribrezzo di se stesso.
Evitava di guardarsi perfino nel riflesso di un
vetro. Il mio istinto cercava soluzioni. Il rispetto per la sua persona mi
suggerì di trattarlo il più naturale possibile, come sempre.
Imparai tante cose nuove, come medicare la stomia,
fare la bronco aspirazione, cambiare i flitri all’ ‘uomo bionico’, come cambiargli
posizione, alzarlo, tutto in modo accelerato e la nostra vita diventò di nuovo
non solo accettabile, ma anche stimolante.
Si risvegliò il suo humor, il ventilatore automatico
era diventato ‘la mamma’. La nostra gatta era la caposala, mi avvisava se il
ventilatore andava in allarme. Anche la tecnica medica per noi era diventata
una delle cose, inventate dall’uomo, accettate con ironia, come supporto
necessario. Vivevo quasi in una ebbrezza di felicità per la vita riacquistata
da Piero. Lui era consapevole delle sue condizioni e spesso aveva cercato di
portarmi alla realtà. Sentiva che la distrofia voleva il suo filo. Durò pochi
anni e mi risvegliò alla brutale realtà un grave peggioramento fisico. Chiese
l’uso di un sondino temporaneo per poter nutrirsi senza danni per i suoi
polmoni. Era iniziata una lenta ma continua ‘decostruzione’ di un corpo che non
riusciva più a dare piacere di vivere, ma diventava via via ostacolo per uno
spirito che in tutto il suo percorso lo aveva dominato, curato, educato per
attuare il suo piano di vita. Era giusto dare questo strumento di vita il
meritato riposo.
‘Non c’è più nulla da inventare. Abbiamo avuto tutto
dalla vita. Dobbiamo capire che è tutto finito.’
Non voleva indugiare sullo sfacelo fisico e reclamava
il diritto per il suo corpo di poter concludere come era nella sua natura:
morire.
‘Dopo capirai.’
‘Sei un soldatino.’
Solo lentamente capii queste parole, profetiche per
la mia persona. Compongo in breve un puzzle: Piero era co-presidente
dell’Associazione Luca Concioni, per anni lavorava su un progetto: una legge
per una ‘morte opportuna’, i tempi vitali si erano troppo ristretti, rimaneva
il suo corpo per terminare il lavoro: il dovere di morire, per far capire.
Mina Welby, Milano 27.06.2013