lunedì 9 dicembre 2013

Eroe Senza Mai Vincere: La Storia di David Purley


Un grandissimo appassionato della Formula 1 e della sua storia come me non poteva non dedicare un articolo del mio blog a questo sport e, soprattutto, ai protagonisti che hanno fatto di questo incredibile spettacolo poesia, arte, vita e morte.

Oltre alle doti immense di ingegneri e progettisti che hanno dedicato la propria vita a costruire monoposto sfidando aerodinamica, legge della gravità e della fisica il vero cuore pulsante di questo sport sono i piloti. Eroi senza tempo che dai primi anni cinquanta si sfidano su circuiti storici, volando a più di 320 km/h con bolidi incollati all’asfalto.
Con il passare degli anni la sicurezza sia nei circuiti e sia sulle monoposto è diventata fondamentale, mettendo giustamente in primo piano la vita del pilota.
Per troppi anni ragazzi di tutte le nazioni hanno perso la vita sull’asfalto per mancanza di sicurezza, per vie di fuga su circuiti completamente assenti e per auto costruite solo ed esclusivamente come tentativi di andare più forte della concorrenza, utilizzando materiali di fortuna e, troppo spesso, fatali in casi di incidenti.

Ciò che non è mai cambiato è la forza, la passione con le quali i piloti ogni Gran Premio si accomodano sulla loro vettura, domandandosi se arriveranno mai sani e salvi al traguardo.
Ma cosa è esattamente che appassiona così tante persone sparse nell’universo a questo sport? Non è solo l’aspetto tecnico delle auto ma l’umanità, il coraggio del pilota.
Così superuomo e così fragile allo stesso tempo quando sale sulla propria auto, così emozionante quando sfreccia giro dopo giro sotto i nostri occhi.

Per questo voglio raccontare, brevemente, la storia di uno di questi eroi, un pilota che verrà ricordato per un unico gesto, per la sua disperazione più che per le imprese a bordo di una monoposto.
Un pilota che non ha mai raccolto un solo punto nella sua carriera, che vanta come miglior piazzamento un misero nono posto ottenuto nello storico circuito di Monza, in Italia nel 1973.

Si chiama David Purley, nato a Bognor Regis in Inghilterra il 26.01.1945 e deceduto nella stessa città, a bordo di un aereo acrobatico, durante un’esibizione, il 02.07.1985 dopo che si era ritirato come pilota di Formula 1 già da qualche anno.
Nel 1973 viene ingaggiato dalla Scuderia Britannica March Engineering che gli offre il posto di seconda guida sulla monoposto 731, da affiancare all’altro pilota rampante Inglese Roger Williamson.
La March non è sicuramente una delle scuderie che può vantare grande impatto economico e la vettura si dimostra molto scarsa.
Purley riesce a qualificarsi per il Gran Premio di Polonia e per il Gran Premio casalingo, a Silverstone dove però non riesce a giungere al traguardo.


Il suo terzo Gran Premio diventerà, suo malgrado, la corsa più famosa alla quale abbia partecipato.
Si corre a Zandvoort, lo storico circuito olandese, il 29.07.1973. Jackie Stewart e Francois Cevert sono i favoriti, la Tyrrel Ford che guidano hanno un passo in più delle avversarie più temibili, le Lotus Ford di Ronnie Peterson e del campione del mondo uscente Emerson Fittipaldi. Il grande caldo di quell’estate cuoce i motori Ford delle due Lotus e le Tyrrel volano verso una splendida doppietta mentre il rampante James Hunt a bordo di una sorprendente Hesketh combatte per il terzo posto con la McLaren del ‘Golden Boy’ Americano Peter Revson.
All’ottavo giro, nelle retrovie, la March 731 del promettente Roger Williamson perde il controllo della vettura. L’auto si ribalta e scivola a 250 km/h contro il guard-rail prendendo fuoco. Williamson si trova intrappolato nella monoposto capovolta, in fiamme.
C’è molto fumo in pista e le auto sfrecciano velocemente, senza fermarsi e senza capire cosa stia succedendo.
Pochi metri dopo l’impatto, giunge il compagno di squadra di Williamson, David Purley a bordo della seconda March.
David vede le fiamme, il fumo e parcheggia la sua auto.
Esce velocemente dalla sua monoposto, attraversa pericolosamente il circuito e corre freneticamente per una ventina di metri verso la macchina in fiamme di Williamson.

Ciò che accadrà nei minuti successivi è qualcosa che non si dimenticherà mai in questo sport. In presa diretta tutto il mondo si accorge della mancata presenza dei mezzi di soccorso sul circuito ed assistono ad un uomo, spogliato della sua figura di professionista che, da solo, con un estintore di fortuna prova a salvare la vita del suo compagno, collega, amico, pilota. Chiede alle persone che giungono sul posto di fermarsi, di aiutarlo a capovolgere l’auto per estrarre Williamson.
Nessuno si ferma, né altri piloti, né altre persone presenti sul circuito.
L’incidente di Williamson si rileverà fatale, morto carbonizzato all’interno di quel che rimarrà della sua March 731.
David Purley si contorce dal dolore, ha un mancamento e se ne va distrutto, disperato dal non avere potuto fare niente senza aiuto.

Fu la prima volta nella storia della Formua 1 che un pilota si ritirò di spontanea volontà per soccorrere un collega. Il gesto è entrato nella storia e David Purley rimane, anche oggi, un dei veri eroi di questo sport.


 La sua carriera non prese mai il volo. Nel 1974 passò alla piccola Scuderia indipendente della Token non riuscendo mai a qualificarsi per un Gran Premio. Nel 1975 acquistò una monoposto privata a la chiamò LEC, nome dell’azienda famigliare che produce frigoriferi.
Il miglior piazzamento fu un tredicesimo posto al Gran Premio del Belgio di Spa-Francochamps. 
Quello stesso anno, a Silverstone, Purley fu protagonista della più incredibile decelerazione mai vista. Per la rottura di un’ala Purley si schiantò contro il muro della curva due del circuito inglese passando da 163 km/h a 0 km/h in appena 63 centimetri. Purley miracolosamente uscì dal terribile incidente vivo ma  con varie fratture in tutto il corpo che lo portarono al ritiro dalla Formula 1.
I rottami della LEC 1 sono attualmente esposti al museo della storia della Formula 1 a Donnington, Inghilterra.


Vi lascio accompagnati dal tragico video di quel giorno, il 29 luglio del 1973 a Zandvoort.
Le immagini sono molto forti e violente ma vale la pena assistere al coraggio, l’umanità e la tristezza di un uomo, con un casco nero in testa, solo contro tutti che prova a salvare una vita umana.
La corsa quel giorno non si interruppe. Le Tyrrel vinsero con facilità, il campione Jackie Stewart si impegnò, da quel giorno, in una lunga battaglia per la sicurezza dei piloti in tutti i circuiti del mondiale.

David Purley, eroe.
Come non ce ne sono più oggi, in questo mondo in cui vincere rimane la cosa più importante senza remore e senza umanità.

Buona visione e ricordate che il tempo distruggerà ogni cosa.
Tranne i veri eroi, i coraggiosi e chi pensa che la solidarietà umana sia sempre la cosa più importante, oltre l’indifferenza.


martedì 29 ottobre 2013

'Blue In The Face' - Lou Reed è Morto, Io Non Sto Tanto Bene.



Domenica scorsa mi sono sentito come quel 06 Aprile del 1994. Avevo appena quattordici anni e soltanto la sera prima Kurt Cobain se n’era andato, con un colpo di fucile sparato in gola. Tradito. Questa era la sensazione in quella giornata di tristezza assoluta. 

Ricordo l’emittente di Vittorio Cecchi Gori, VideoMusic, che trasmetteva i video dei Nirvana uno dopo l’altro. Da ‘Smells Like Teen Spirit’ a ‘Heart-Shaped Box’. Un commiato perfetto, uno dei primi tributi in diretta di un personaggio che ci aveva lasciato. O meglio, per quanto mi riguarda, tradito. 
Da quei video cominciavo ad osservare in maniera diversa quello che ascoltavo dal mio vecchio walk-man. I suoi occhi, azzurri come il cielo ma così pieni di tristezza e rabbia. 
E io, adolescente che si apprestava ad andare a studiare a Bergamo Città, che lo credevo un mio amico, un bravo ragazzo con l’aspetto di un angelo, pronto a sparare merda sul classico pop inglese che girava ininterrottamente nelle radio in quel periodo.
Era semplicemente un alternativo, era grunge, punto.
Così non ero né arrabbiato, né triste ma semplicemente ferito. Come se avessi perso un amico, nonostante lo potessi riascoltare in ogni momento e fino alla fine dei miei giorni.



Domenica sera, 27 Ottobre 2013 se ne è andato Lewis Allan Reed o, più semplicemente, Lou Reed. Ci ha lasciati in circostante diverse, nessuno sparo e nessun suicidio, nonostante tutto.
Un trapianto di fegato riuscito non troppo bene, le svariate medicine assunte e gli elevati rischi di un rigetto. 
Così Lou ha resistito un anno e mezzo prima di spegnersi silenziosamente, come il suo esordio con i freddi ma spettacolari Velvet Underground.
Anche questa volta mi sento ferito, come se un altro mio amico se ne fosse andato per sempre. Mi ha accompagnato in momenti di disperazione e nei miei viaggi, sussurrandomi nelle orecchie ‘Perfect Day’ oppure ‘Vicious’ oppure ‘Satellite Of Love’.
Ricordo un pomeriggio a Manhattan Beach, Los Angeles mentre camminavo nel sole californiano e fischiettavo con il mio mp3 nelle orecchie ‘Walk on the Walkside’.



Non vi annoierò con tutta la sua discografia e tutti i problemi passati da piccolo. Nemmeno della sua influenza in generi musicali completamente diversi tra loro come il classic rock, il glam, il punk e la new wave. Sicuramente senza di lui gente come David Bowie oppure gruppi come Joy Division o più tardi ancora i R. E. M. non sarebbero mai esistiti.

Volevo solo dirvi, miei affezionati darklings, che la musica ha uno di quei ‘mostri sacri’ in meno, che le mie orecchie e il mio cuore non avranno più un cantore come Lou a tenermi compagnia la domenica mattina e non solo.
Lo voglio ricordare nello splendido film di Wayne Wang ‘Blue In The Face’ del 1996, tratto da un racconto dello scrittore Paul Auster, interpretare ‘L’uomo con gli strani occhiali’.

E volevo salutarvi con uno dei pezzi più incredibili del suo repertorio. Era il 1967, e negli Stati Uniti d’America costernati dalle contraddizioni, Lou rivendicava la sua bisessualità dichiarando al momento di ‘aspettare il suo uomo’ che ‘arriva sempre in ritardo e non è mai in anticipo’…ladies and gentleman 'I'm Waiting For The Man'.


mercoledì 28 agosto 2013

La Musica del Diavolo - Il Blues del Mississipi



‘Per me Robert Johnson è il più importante musicista blues mai vissuto. Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana.’
Eric Clapton – Intervista pubblicata nel booklet del doppio album Robert Johnson – 'The completed Recordings'.

Carissimi lettori, eccomi tornato dopo la pausa estiva contraddistinta da enormi cambiamenti e da abitudini da costruire e da lasciarsi alle spalle. Ma questo è già un altro discorso. Siamo tutti portati a lamentarci, a piangere sulle nostre disgrazie e a prendercela con delle situazioni non definite, cose astratte come il destino, il fato e le coincidenze.
Per questo l’uomo ha avuto bisogno di sfogare questi lamenti, questa frustrazione al limite tra l’autoreferenzialità ed il vittimismo. Ecco perché l’uomo ascolta la musica, ecco perché gli esseri umani, da sempre, ascoltano il blues.

E’ da un lamento che,  nel 1931 a Copiah County – Mississipi - , un ragazzo di colore disperato ed ubriaco fradicio di nome Robert Leroy Johnson (nato ad Hazlehurst l‘ 08.05.1911) inventa il blues. 
Vagava da mesi in cerca di una sistemazione, tra i villaggi del Mississipi, lacerato dalla morte della sua giovane moglie sedicenne Virginia Travis, deceduta mentre dava alla luce il suo primo figlio. Senza famiglia, senza casa, senza soldi e con tanta rabbia in corpo Robert trascorre le sue giornate tra donne e whiskey cercando, ogni tanto, un pezzo di legno con delle corde per strimpellare qualche nota e raccontare delle storie.
La musica diventa una vera e propria passione, la sua unica e nuova ossessionante compagna di vita. Ogni sera modella quel pezzo di legno e cambia la sistemazione delle corde, ogni ‘fuckin’ night’ si esibisce davanti ad ubriachi del posto con una chitarra diversa, innovativa. Ma ciò che più impressiona è il movimento delle dita sulle corde, virtuosismi mai visti a velocità pazzesche. Musica che risuona in maniera sempre più complicata e complessa con testi strazianti di vita vissuta, amori perduti, solitudine e cuori spezzati.
Il suo modo di suonare diventa una stupefacente tecnica chitarristica basata sostanzialmente sul 'fingerpicking' e tuttora additata come una delle massime espressioni del blues; le evocazioni generate dalla sua voce e dalle sue complesse strutture chitarristiche; il sinistro contenuto dei suoi testi, pur largamente improvvisati (come era ovvio per il genere, all’epoca), spesso narranti di spettri e demoni quando non esplicitamente riferiti al suo patto con il diavolo in persona.



Già. Il patto con il diavolo, l’inizio di tutto. L’inizio del primo vero genere musicale mai inventato, il Delta Blues, dal nome della zona nella quale Robert Johnson deliziava la sua platea di ubriachi con dei capolavori. Dal nome del bivio, il crossroads, dove il fiume Mississipi si divide per prendere due strade diverse.
E' lì narra la leggenda, che il giovane bluesman avesse stretto un patto con il diavolo, vendendogli la sua anima in cambio della capacità di poter suonare la chitarra come nessun altro al mondo.
Ad alimentare la leggenda ci sono i racconti dei vari musicisti che lo conobbero e che riferiscono la sua iniziale goffaggine nel suonare la chitarra. In base a queste testimonianze (tutte concordanti), Johnson scomparve dopo la morte della moglie per poi riapparire dopo un anno dotato di una bravura straordinaria, una bravura nel maneggiare quel pezzo di legno tale da lasciare tutti allibiti.

Tra il Novembre del 1936 e il Giugno del 1937 Robert Johnson lascerà il suo segno indelebile nel mondo della musica e della cultura incidendo 29 canzoni in una camera d’albergo di proprietà di uno scopritore di talenti dal nome di Ernie Ortle, una sorta di primo talent scout.

Queste tracce verranno poi suonate e riproposte decennio dopo decennio dai più importanti gruppi rock, blues e funky della storia della musica decretandone definitivamente l’importanza e classificando Robert Johnson come pietra miliare della storia della musica, fonte d’influenza per numerosissimi musicisti.

Il 23 Gennaio del 1986 viene introdotto nella Rock And Roll Hall Of Fame nella categoria Early Influences e definito il secondo migliore chitarrista della storia inferiore soltanto a  Jimi Hendrix.

Anche la morte di Robert Johnson, avvenuta a Greenwood il 16 Agosto del 1938, a soli 27 anni rimane avvolta nel mistero.
Testimoni, tra i quali il musicista Sonny Boy Williamson II, hanno più volte confermano che Johnson la notte del 13 Agosto 1938 si trovava a suonare con loro al Three Forks, un locale situato a 15 miglia da Greenwood nel quale i tre suonavano ogni sabato sera a seguito di un ingaggio che durava da alcune settimane. Era apparso subito evidente come Robert Johnson avesse una storia con la moglie del gestore del locale, il quale era consapevole del fatto ma che non aveva cessato di contattarlo per esibirsi.
Racconta Sonny Boy che durante la serata, complici l’alcol e l’atmosfera di grande eccitazione, gli atteggiamenti dei due furono talmente spudorati da risultare persino imbarazzanti. Altrettanto chiara era la rabbia dipinta sul volto del barman.

Quando durante una pausa venne passata a Robert una bottiglia da mezza pinta di whiskey senza tappo, Sonny Boy gliela fece cadere di mano avvertendolo che non era prudente bere da una bottiglia aperta; nondimeno questi s’infuriò e bevve con stizza la successiva bottiglia, ugualmente passatagli, già stappata. Poco dopo risultò evidente che Johnson non era più in condizione di suonare al punto che lasciò la chitarra e si alzò per andare via, in stato confusionale. Fu accompagnato a casa di un amico, dove poche ore iniziò a delirare – si trattava dei primi segni di avvelenamento.
In quel luogo morì il martedì successivo, dopo due giorni di intensa agonia.

La vera tomba di Robert Johnson non è ancora ufficialmente definita. Nei dintorni di Greenwood ci sono ben pietre tombali con il suo nome inciso sopra.
Nella foto ecco quella di Quito, Mississipi poco distante da Greenwood, situata nel cimitero di Payne Chapel recante la scritta ‘Resting in the Blues’ come tributo assoluto ed ultimo saluto all’inventore del genere Delta Blues e del fingerpicking. 



Di lui restano frasi e storie che ancora oggi lacerano cuori e scavano nel nostro profondo dell’anima. Sembra quasi sentire ancora la sua voce e la sua lunga litania quando ascoltiamo un suo brano. Come questa frase emblematica del pezzo ‘Hellhound on my Trail’.

I got to keep movin’, blues falling down like hail. And the day keeps on worryin’ me…there’s a hellhound on my train.’

‘Devo correre, il blues scende come grandine. La luce del giorno continua a tormentarmi…c’è un segugio infernale sulle mie tracce.’.



Ecco le 29 tracce registrate tra Lunedì 23 Novembre 1936 e Domenica 20 Giugno 1937:

1)     Kindheart Woman Blues
2)     I Believe I’ll Dust my Broom
3)     Sweet Home Chicago
4)     Rambling On My Mind
5)     When You Got a Good Friend
6)     Come On In My Kitchen
7)     Terraplane Blues
8)     Phnograph Blues
9)     32-20 Blues
10) They’re Red Hot
11) Dead Shrimp Blues
12) Cross Road Blues
13) Walking Blues
14) Last Fair Deal Gone Down
15) Preaching Blues (Up Jumped The Devil)
16) If I Had Possession Over Judgement Day
17) Stones In My Passway
18) I’m a Steady Rollin’ Man
19) From Our Till Late
20) Hellhound On My Trail
21) Little Queen Of Spades
22) Malted Milk
23) Drunken Hearted Man Take
24) Me and The Devil Blues
25) Stop Breakin’ Down Blues
26) Traveling Riverside Blues
27) Honeymoon Blues
28) Love In Vain Blues
29) Milkcow’s Calf Blues Take



Numerosi sono i gruppi che ancora oggi interpretano I brani di Robert Johnson arraggiandoli in maniera sempre diversa ma inequivocabilmente ed irrimediabilmente blues. Tra le più famose cover spiccano quelle dei Rolling Stones riferite a ‘Love In Vain’ (Album ‘Let It Bleed’ del 1969) e ‘Stop Breakin’ Down’ (Album ‘Exile On Main St. del 1972), quella dei Led Zeppelin riferita a ‘Travelling Riverside Blues’ contenuta nell’album ‘Coda’ del 1982, quella dei Red Hot Chili Peppers riferita a ‘They’re Red Hot’ contenuta nell’album ‘Blood, Sugar, Sex, Magik’ del 1991 e per concludere quella degli White Stripes (‘Stop Breakin’ Down’) contenuta nell’album omonimo del 1999.

Ecco la cover tratta dall’album originale ‘Exile On Main St.’ dei Rolling Stones.



E ricordate, il tempo distruggerà ogni cosa, tranne i patti con il diavolo…

giovedì 11 luglio 2013

Mina Welby - Il Dovere di Morire

Riporto integralmente l'intervento di Mina Welby, moglie di Piergiorgio, durante un convegno svolto a Milano in data 27.06.2013. 

Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, personalmente posso solo divulgare questo immenso gesto d'amore che una donna ha fatto per il suo uomo, per la persona a lei più cara al mondo.

Ricordatevi che il tempo distruggerà ogni cosa, tranne i gesti come questo. Firmate per una legge giusta, firmate per fare sì che il testamento biologico diventi legge anche in Italia.
Buona lettura.

IL DOVERE DI MORIRE

'Chi non ha mai percorso dei sentieri di montagna? Sono diligentemente marcati con delle indicazioni che aiutano il viandante ad arrivare alla meta prefissata.
Io per natura ero un po’ discola nel rispettare le segnaletiche. Curiosa da sempre, seguivo suoni di ruscelli e voci di animaletti che volevo sorprendere. Non m’importava arrivare più tardi degli altri in cima alla collina.

Anche sulla strada della mia vita ho fatto come Cappuccetto Rosso. Ho fatto di più, ho perduto il cuore per una persona che diventò ragione di vita per me. Dall’esempio di mia madre, che allora non viveva più, ho tratto il coraggio di farlo. Innamorarsi di una persona con abilità limitate suscita qualche perplessità e preoccupazione in chi ti conosce.
Hai riflettuto bene?
Fu la domanda con uno sguardo preoccupato.
Mi vedevano felice e questo bastava a tutti, almeno credo.

Inizialmente sembrava complicarsi il rapporto tra me e Piero. Non voleva un legame di responsabilità, sancito pubblicamente, il matrimonio. Il suo amore arrivò al punto di non volermi legare a sé. Lui era già allora orientato verso un ‘porto non lieto ma sicuro’.
Troppe erano le avvisaglie di una patologia, la distrofia, che aumentava varie disabilità fisiche nel suo corpo. Io non lo amavo per compassione ma volevo che trovasse ancora gusto di vivere nonostante tutto. Ancora non mi conosceva. Lui cacciatore, amante della natura non doveva marcire in un letto. Come superare gli ultimi gradini della scala per potere uscire insieme a lui? E come fargli venire la voglia di uscire? Sorpresa! Uno scivolo rimovibile e una leggerissima canna da pesca. Alla nostra prima gita insieme al suo papà fu molto scettico, ma alla fine contento, e una uscita tirava l’altra, come le ciliegie.
Mi facevano molta pena le larvette di mosca che mettevo all’amo, ma ben presto diventò una necessaria abitudine. Le ricettine di trote ai frutti secchi o alle erbette furono graditissime. Avevo vinto! Aveva vinto la voglia di vivere! E io avevo imparato tutto sulla pesca. Anche il suo amore per la fotografia e la pittura ci fecero trovare nuove strade per potere ancora lavorarci. 

Le giornate diventarono piene di soddisfazioni sempre nuove.
Assistere nello studio ragazzi svogliati e studenti volenterosi, godere dei loro successi agli esami, allestire una mostra fotografica, poter partecipare ad una esposizione di quadri e riuscire a venderne qualcuno erano piccole soddisfazioni, silenziosamente condivise. Lo studio di filosofia alternato a quelli di programmi per computer e tutto il resto allontanava sempre di più la spada di Damocle della distrofia apparentemente per me. Oggi so che lui viveva per me. Non aveva mai perso la severità del suo futuro. Sapeva nascondermelo.

Con molta dolcezza mi preparò e mi chiese di non portarlo in pronto soccorso se fosse sopravvenuta una crisi respiratoria. Ero d’accordo. Ci parve tanto semplice morire.
Ma la realtà fu ben diversa di quella che immaginavamo. Piero mi chiese aiuto.
Chiamai il soccorso.

Era difficile, difficilissimo capire, come agire in modo giusto. Tutto da imparare. In rianimazione: non mi poteva parlare, aveva un tubo in bocca attraverso il quale una macchina gli soffiava l’aria nei polmoni. Non mi doveva vedere triste.
Potevo piangere fuori sul corridoio, dopo la visita. Non doveva vedermi con gli occhi rossi. Poi venne la scelta possibile: la tracheotomia. Dopo tre giorni di discussione tra noi due, come meglio possibile nelle sue condizioni, e i medici. Poi con disappunto mi fece firmare.
Lo vedevo e lo percepivo indifeso, mi sentivo impotente e in colpa nei suoi confronti.
La sua vita diventò una condanna.
Si fece portare Lucrezio ‘De rerum natura’. Se lo fece leggere da un’infermiera quando era libera. Sicuramente non apprezzava la catechesi del cappellano sul valore del dolore e la salvezza dell’accettazione.
Poi tornò a casa.

Era un figlio della terra, dove tutto muta, nulla si distrugge, ma serve per fare nascere altro.
I suoi occhi mi parlavano di ribrezzo di se stesso.
Evitava di guardarsi perfino nel riflesso di un vetro. Il mio istinto cercava soluzioni. Il rispetto per la sua persona mi suggerì di trattarlo il più naturale possibile, come sempre.
Imparai tante cose nuove, come medicare la stomia, fare la bronco aspirazione, cambiare i flitri all’ ‘uomo bionico’, come cambiargli posizione, alzarlo, tutto in modo accelerato e la nostra vita diventò di nuovo non solo accettabile, ma anche stimolante.

Si risvegliò il suo humor, il ventilatore automatico era diventato ‘la mamma’. La nostra gatta era la caposala, mi avvisava se il ventilatore andava in allarme. Anche la tecnica medica per noi era diventata una delle cose, inventate dall’uomo, accettate con ironia, come supporto necessario. Vivevo quasi in una ebbrezza di felicità per la vita riacquistata da Piero. Lui era consapevole delle sue condizioni e spesso aveva cercato di portarmi alla realtà. Sentiva che la distrofia voleva il suo filo. Durò pochi anni e mi risvegliò alla brutale realtà un grave peggioramento fisico. Chiese l’uso di un sondino temporaneo per poter nutrirsi senza danni per i suoi polmoni. Era iniziata una lenta ma continua ‘decostruzione’ di un corpo che non riusciva più a dare piacere di vivere, ma diventava via via ostacolo per uno spirito che in tutto il suo percorso lo aveva dominato, curato, educato per attuare il suo piano di vita. Era giusto dare questo strumento di vita il meritato riposo.

‘Non c’è più nulla da inventare. Abbiamo avuto tutto dalla vita. Dobbiamo capire che è tutto finito.’
Non voleva indugiare sullo sfacelo fisico e reclamava il diritto per il suo corpo di poter concludere come era nella sua natura: morire.
‘Dopo capirai.’
‘Sei un soldatino.’
Solo lentamente capii queste parole, profetiche per la mia persona. Compongo in breve un puzzle: Piero era co-presidente dell’Associazione Luca Concioni, per anni lavorava su un progetto: una legge per una ‘morte opportuna’, i tempi vitali si erano troppo ristretti, rimaneva il suo corpo per terminare il lavoro: il dovere di morire, per far capire.

Mina Welby, Milano 27.06.2013



lunedì 24 giugno 2013

Fuochi nella Notte di San Giovanni


La notte del 24 Giugno di ogni anno è il grande giorno del solstizio d’estate.
Le paure scappano, il sole si apre sulle nostre teste e i pensieri corrono via lentamente facendo posto alla felicità, alle giornate che si allungano e alla rassegnazione che ‘così vanno le cose e così devono andare’, come se non ci fosse alcuna soluzione al destino, al movimento del sole, della terra e della luna.

La notte del 24 Giugno è la notte di San Giovanni, giorno della nascita di San Giovanni Battista, unico Santo per la religione cattolica-cristiana che rappresenta la vita e non la morte. Questo momento ha un grande significato simbolico per tutti i cristiani equiparato alla notte di Natale, nascita di Gesù Cristo.
La tradizione popolare ha così elaborato diversi piccoli rituali per propiziare le forze positive al culmine del loro potere ed esorcizzare quelle negative legate alla diminuzione delle ore di luce.
Nel Nord Italia, in particolare modo in Veneto ed in Lombardia, la festa di San Giovanni si esprime tramite delle vere e proprie danze intorno a dei falò accesi per dare fine al passato. Si bruciano cose vecchie, si ardono oggetti e vestiti che non servono più per propiziare novità, speranze e una vita nuova.

Famoso un proverbio popolare che la dice lunga sull’importanza di questa tradizione:

‘La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il gran turco’

Purtroppo, come altre consuetudini popolari, anche questa festa sta perdendo la sua importanza, dimenticata da eventi molto più importanti; politici, sportivi o tecnologici.
Soltanto nel oramai lontano 1993 un gruppo Italiano dei più influenti ed importanti della musica contemporanea ha lasciato un ricordo in merito a questa tradizione.
Erano gli anni che succedevano allo scandalo di Tangentopoli, gli anni definiti della ‘Seconda Repubblica’. Gli anni della sconfitta dell’ Unione Sovietica, divisa in tanti piccoli stati chiamati semplicemente ‘Confederazione degli Stati Indipendenti’ (C. S. I.).

Un gruppo chiamato C. C. C. P. si era da poco trasformato da un complesso di musica ‘punk-rock’ ad una formazione molto più complessa, costruendo un genere unico e particolare. Scelsero il nome di C. S. I. , giocando ironicamente con la sigla della Confederazione degli Stati Indipendenti di cui sopra ma definendosi in realtà ‘Consorzio Suonatori Indipendenti’. I componenti sono musicisti già famosi soprattutto in Emilia-Romagna e ruotano tutti intorno alla voce del cantante Giovanni Lindo Ferretti e le chitarre di Massimo Zamboni e Giorgio Canali, il basso di Gianni Maroccolo, la batteria di Roberto Zamagni, i cori di Ginevra Di Marco e le tastiere di Francesco Magnelli.

Il loro album del 1993 ‘Kò de Mondo’ è un fantastico mix di musica suonata divinamente associata a testi molto complicati e sofisticati che creano all'ascoltatore molte immagini, frasi ad effetto che portano a ragionare su molti rapporti sia con gli altri e sia con se stessi.
All’interno di questo album c’è un brano dal titolo ‘Fuochi nella notte di San Giovanni’ che rende giustizia e merito alla tradizione di cui abbiamo parlato, una stupenda poesia che si articola sulla frase che compone il ritornello:

‘Così vanno le cose, così devono andare
chi c’è c’è e chi non c’è non c’è
chi è stato è stato e chi è stato non è
e non tacciano i canti e si muove la danza
e non tacciano i canti e si muove la danza
danza, danza, danza, danza, danza’

L’estate è appena iniziata, i brutti ricordi sono stati bruciati, i falò accesi.
Le speranze ci avvolgono nonostante le brutte notizie.

In questa notte di San Giovanni anche io ho acceso i miei fuochi, la mia nuova vita.

Non ho molto, forse non ho nulla.

Ho l’amore, questo sono sicuro che mi basterà per accendere ancora mille fuochi.

E voi?

Alla prossima darklings e anche questa volta il tempo distruggerà ogni cosa.

Buon ascolto.


sabato 1 giugno 2013

Israele 2013 - Gli Europei della Vergogna


Voglio dare il giusto spazio e la giusta rilevanza ad una notizia che non ha trovato posto all’interno dei maggiori organi d’informazione italiani tranne che sul quotidiano ‘Il Manifesto’.
Il giornalista Michele Giorgio è l’unico, infatti, ad avere scritto un bellissimo articolo intitolato ‘Un cartellino rosso agli Europei d’Israele’, pubblicato in data 30.05.2013.

Dal 05 al 18 giugno 2013 si terranno nelle città di Gerusalemme, Tel Aviv, Netanya e Petah Tikva gli Europei UNDER 21 delle nazionali di calcio qualificate per questa manifestazione. Parteciperanno a questo torneo, oltre alla nazione ospitante Israele, Germania, Inghilterra, Italia, Norvegia, Olanda, Russia e Spagna. Una manifestazione che si attende molto equilibrata e scoppiettante per l’alto tasso tecnico dei giocatori che compongono queste formazioni.

Non si può, però, ogni volta glissare sull’aspetto morale delle scelte che la politica del calcio (sicuramente non distante dalla politica europea) effettua dimostrando assoluta incoerenza con i facili slogan che ogni sera siamo ad osservare sui campi di calcio.
Per quale motivo Platini e Blatter hanno scelto come location di questa importante manifestazione giovanile proprio Israele?

Dopo la campagna ‘right to play’ all’insegna del gioco pulito, la condanna dei cori razzisti all’interno degli stadi con minacce di sospendere gli incontri (cosa fino ad ora mai accaduta in una competizione ufficiale) e il famoso ‘Diamo un calcio al razzismo’; viene scelta come sede degli Europei uno degli stati con le mani sporche di sangue.
Israele, paese che occupa in maniera del tutto arbitraria territori che non sono i suoi annullando, di fatto, la Palestina ed i suoi abitanti.
Israele filiale degli Stati Uniti che ha ucciso migliaia e migliaia di donne, bambini e abitanti della Palestina con l’accusa di rivendicare un territorio, un casa, la libertà.
Israele che ha costruito un muro invalicabile che divide completamente la nazione con il divieto assoluto per i palestinesi di entrare nei territori israeliani.
Israele che non riconosce la Palestina, senza diritti, senza esistenza e senza…nazionale di calcio.



Una scelta del tutto vergognosa che ha portato molti giocatori di calcio affermati a scrivere in data 24.05.2013 una lettera all’UEFA di cambiare la sede della manifestazione essendo INTOLLERABILE giocare in uno stato reo di avere commesso di crimini verso l’umanità.
Atleti del calibro di Didier Drogba, Jeremy Menez, Frederic Kanoutè ma anche personaggio di spicco della cultura mondiale come il regista Ken Loach, l’attore Roger Lloyd Pack, il comico Alexei Sayle e il parlamentare laburista Jeremy Corbin.

Non si può evitare di commentare l’assenza di personaggi Italiani. Silenzio completo da parte della Federazione Italiana Gioco Calcio, dei calciatori e persino dell’allenatore della Nazionale Maggiore di calcio Cesare Prandelli, sempre molto attento all’attualità e in prima linea per combattere il razzismo. Allenatore autore, inoltre, di un codice etico. Una serie di regole di ‘buona condotta’ che i calciatori devono rispettare durante tutto l’anno sportivo per accertarsi la convocazione in nazionale pena l’esclusione.
Argomentazioni molto populiste che non trovano risconto poi in gravi fatti come questo: nessuna parole de commissario tecnico in merito alla scelta di Israele come luogo dell’evento degli Europei.

Voglio ricordare qui, su questo spazio libero ed incensurato, gli ultimi crimini degli israeliani. Senza generalizzare mi limiterò a citare ciò che i militi ebrei hanno combinato ai giocatori della nazionale della Palestina (ricordo, non riconosciuta dalla UEFA).
Tre mesi di sciopero della fame e protesta internazionale per rilasciare il nazionale Mahmoud Sarsak, arrestato mentre viaggiava da Gaza per la Cisgiordania, rimasto in cella per oltre tre anni senza capo d’accusa e nessun processo, in detenzione amministrativa.
4500 detenuti politici tra i quali il portiere della Palestina Omar Abu Rois e il dimensione Mohammad Nimr.
E’ andata peggio ad altri tre giocatori palestinesi: Ayman Alkurd, Shadi Sbakhe e Wajeh Moshate uccisi nell’offensiva israeliana ‘Piombo fuso’ contro Gaza nel non troppo lontano gennaio 2009.

Pazzesca la totale insensibilità di roi Michel Platini e del suo amico mafioso Joseph Blatter.

Dato che, anche in questo caso, il tempo distruggerà tutto compreso le solite ipocrise voglio, di seguito, pubblicare la lettera di protesta della quale ho parlato sopra.
Perché alcune persone, nonostante il benessere economico e la popolarità dovuta al mondo del pallone, hanno ancora sensibilità per ciò che è UMANO.
Buona lettura e alla prossima informazione che non vi dicono.

‘Venerdì 24 maggio, delegati delle leghe calcio europee si sono riuniti in un albergo di Londra per il Congresso Annuale della UEFA. In tale sede hanno convenuto nuove, severe linee guida per affrontare il razzismo, il che suggerisce una determinazione encomiabile per combattere la discriminazione in questo sport.
Per questo troviamo sconvolgente che questa stessa organizzazione dimostri una totale insensibilità nei confronti della palese e radicale discriminazione inflitta a donne e uomini sportivi palestinesi da parte di Israele.
Nonostante gli appelli diretti da parte di rappresentati di questo sport in Palestina e di organizzazioni antirazziste e per i diritti umani in tutta Europa, l’UEFA premia il comportamento crudele e fuori legge di Israele conferendole l’onore di ospitare il campionato europeo UNDER 21 il prossimo mese.
L’UEFA non dovrebbe permettere a Israele di utilizzare un prestigioso evento del calcio per mascherare la negazione razzista dei diritti dei palestinesi e l’occupazione illegale di terra palestinese. Esortiamo l’UEFA a seguire l’esempio coraggioso dello scienziato di fama mondiale Stephen Hawking che, su consiglio di colleghi palestinesi, ha rifiutato di prendere parte ad una conferenza internazione in Israele.
Invitiamo l’UEFA, anche in questa fase tardiva, a rivedere le scelta di Israele come paese ospitante’.

Di seguito, il video del gruppo Irlandese U2 dal titolo 'Sunday Bloody Sunday'. Anche se il brano fu scritto per la guerra civile dell'ULSTER penso che rappresenti in toto ciò che sta accadendo da un secolo in Israele. Buon ascolto.